Il valore della lentezza – The whispering star, di Sion Sono (2015)

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Sion Sono è un pazzo. Soltanto un pazzo poteva decidere di scrivere, dirigere e produrre un film come questo, girandolo in una Fukushima abbandonata poco dopo il disastro nucleare del 2011 e mescolando tantissime e diversissime influenze (dall’estetica tradizionale giapponese alla fantascienza di Tarkovskij).

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Siamo in un futuro lontanissimo, nel quale ormai l’umanità ha colonizzato l’intero universo e si sta pian piano estinguendo: tant’è che ci viene ripetutamente detto che l’80% della vita è costituita da androidi dotati di una sviluppatissima intelligenza artificiale. Una di essi è la nostra protagonista, l’androide ID 722 Yoko Suzuki (interpretata da una magnifica Megumi Kagurazaka, moglie e musa del regista), la quale è un corriere interstellare che consegna pacchi tra le varie stelle in spedizioni lunghe anche decenni. Le uniche compagnie della nostra protagonista in questi lunghi viaggi sono un computer di bordo (simile ad una radio anni ‘40) e un registratore a bobine che utilizza per trascrivere le proprie giornate e le proprie riflessioni sull’umanità e l’esistenza stessa.

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Il leitmotiv del film sta nella ripetizione: il regista ci mostra la ripetitività della vita di questo androide sull’astronave (che ricorda una Minka giapponese), il quale compie sempre le stesse azioni quali prepararsi il tè, spazzare il pavimento, bere una lattina e registrare le proprie impressioni. Per farci comprendere l’enorme lasso di tempo che passa, ognuna di queste scene viene montata con i giorni della settimana in sovrimpressione, che continuano a comparire durante tutta l’opera. Continuiamo ad osservare, quindi, la nostra protagonista nella sua routine, che va a spezzarsi unicamente quando scende sul pianeta di turno per consegnare i pacchi.

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Molto interessante è la rappresentazione dell’umanità fornitaci da Sion Sono: gli uomini in questo film sono silenziosissimi e statici, superati dalle loro stesse invenzioni e sconfinati in un’apatia dovuta alla consapevolezza dell’imminente estinzione. Estremamente chiarificatrici sono le parole di Yoko, che continua a chiedersi perché gli uomini, seppur esista il teletrasporto, continuino a spedirsi pacchi pieni di cianfrusaglie poco importanti. La verità è che tutto il contesto nel quale ruota il film va a creare un’enorme critica al nostro mondo, alla sua velocità e al non riuscire ad apprezzare ciò che si ottiene per la sempre maggior volontà di avere di più: gli uomini di questo film rappresentano la vera e propria morte dell’umanità, non in quanto estinta ma in quanto figli di una mentalità (la nostra) che li ha portati a non essere più dei veri e propri uomini. Per questo motivo continuano a spedire questi pacchi, perché l’attesa e il riuscire ad aggirare la tecnologia che essi stessi hanno creato riesce, in parte, a farli sentire ancora vivi. È molto interessante come questo processo porti in realtà la nostra protagonista ad umanizzarsi, ma in piccoli gesti, come nella curiosità per il contenuto dei pacchi o nel camminare con una lattina che fa un rumore buffo sotto la scarpa, fino al finale che chiude il cerchio sulla sua totale acquisizione di empatia verso il prossimo.

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Impossibile non dare enormi crediti a Megumi Kagurazaka, che regge il film in un assolo recitativo di altissimo livello, fatto di pochissime espressioni ma tanti piccoli gesti, sguardi o movimenti impercettibilmente diversi: una prova incredibile. Per quanto riguarda il lato tecnico del film, Sion Sono conferma la contemporanea modernità e classicità del suo cinema: i movimenti di macchina sono lenti e ripetuti, ma gestiti da un montaggio e da una fotografia (in un bianco e nero scurissimo che in alcune scene assume delle tonalità di seppia) stratosferici, come solo lui e pochi altri (Miike, Tsukamoto, ecc.) sanno fare in Oriente e non.

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Il finale del film, con la discesa in questa stella nella quale non si possono superare i 30 decibel, ci mostra tutto ciò di cui abbiamo discusso finora. La nostra protagonista si ritrova in un corridoio con ai lati le ombre delle persone (stile lanterna cinese) che conducono le proprie esistenze. Questo da una parte ci riporta quasi ad uno stato arcaico del cinema, rappresentato proprio dagli spettacoli con le ombre fatti nell’estremo oriente da secoli, se non millenni; dall’altra conferma la visione del regista sull’umanità: gli uomini non sono ancora estinti, ma nel loro perseguire un percorso che sempre più li spersonalizza sono ormai delle ombre, aggrappate ad un passato e a dei gesti che non possono più salvarli.

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